“Perché un’altra televisione diversa, è impossibile! Viva la merda!” Ecco, se volete una sintesi, raggiungere immediatamente l’essenza di Boris, questa battuta detta all’interno della serie è la più adatta al caso. Vi ricordate le sere d’estate passate a casa della nonna, assorta a guardare serie come Un posto al sole? E vi chiedevate cosa cavolo ci trovasse la nonna, donna molto intelligente in tutti gli altri frangenti della vita, in una serie televisiva grondante di patetismo e vacuità dei contenuti? Cosa succederebbe se, per caso, avessimo la possibilità di andare dietro le quinte di Un posto al sole e scoprire che lo stesso regista, produttore, sceneggiatore reputano anche loro lo show una somma schifezza per pantofolai incalliti? Boris è tutto questo e anche di più.
Una meta-serie su Occhi del cuore, ovvero un medical drama orripilante. Non solo i protagonisti di Occhi del cuore, il narciso Stanis e la “cagna” (come viene più volte apostrofata alle spalle dal regista René Ferretti) Corinna, nel ramo dello spettacolo per una serie di conoscenze e maneggi che poco hanno a che fare con la sua (scarsa) capacità recitativa, sono faticosamente sopportati dal resto della troupe, ma gli stessi sceneggiatori non sanno che pesci pigliare.
O meglio, sanno benissimo come impiegare il tempo lavorativo con il cazzeggio, ma in materia di scrittura sono letteralmente a secco. Ma questa è la filosofia di Boris: si porta a casa, si smarmella, pur di andare a casa e ricevere la paga. La qualità passa in secondo piano, tanto la gente desidera la schifezza, anela verso il mediocre, per cui basta seguire le linee guida, come cuocere qualcosa di già pronto, qualche gesto approssimativo ed ecco, la pancia è piena, anche se non si sa neanche cosa si è mangiato. Boris ci offre anche uno spaccato delle gerarchie, cosa per la quale un italiano ci si può facilmente identificare, specie se ha passato la sua giovinezza tra un tirocinio sottopagato e l’altro. La serie è chiara fin dal primissimo episodio: la varia fauna dello studio cinematografico ci viene svelata dall’arrivo del nuovo stagista, Alessandro, con l’ambizione di approdare a qualcosa di meglio in futuro. Le metafore zoologiche qui si sprecano: non solo si ripete varie volte che si è in una vera e propria giungla, ma la metafora del pesce, oggettivata da Boris, il pesce rosso di René, viene più volta suggerita implicitamente. È tutta una questione di pesci piccoli che vengono mangiati da pesci più grandi. Partendo con lo stagista-schiavo Lorenzo, che occupa il livello più basso della scala gerarchica.
Una calvizie che lascia suggerire come l’avanzamento di carriera prospettato da Alessandro è probabilmente una mera chimera, Lorenzo è più che altro un componente invisibile, che si nota solo quando la frustrazione, la rabbia dei piani alti deve sfogarsi da qualche parte, o quando lui stesso commette degli sbagli.
Un gradino più in su troviamo Biascica, il capo elettricista, con la sua immancabile berretta con la scritta Asshole (letteralmente “stronzo”, ma probabilmente Biascica non sa cosa voglia dire).
Amante della Roma, è il Troisi illetterato della situazione: con evidenti difficoltà con il gentil sesso, spesso si ha l’impressione che lui stesso si percepisca come un elefante in una cristalleria. Afflitto da emicranie forti, si trova costretto a seguire un percorso psicoterapico, con scarsi risultati. Con lui collabora Duccio, il direttore della fotografia,
abilissimo ad imboscarsi e a impelagarsi in loschi traffici di droga e altre merce da sottobanco, e ingaggiato da René proprio in ospedale, dove era stato ricoverato per overdose. Secondo lui, la fotografia di Occhi del cuore deve essere il più brutta possibile per far sì che la gente non cambi canale durante gli spot pubblicitari. Diciamo che tutto questo gli è congeniale nella sua attività di nullafacenza.
Arriviamo così a Itala, la segretaria di edizione, sempre seduta con la boccia di Boris davanti a sé, stoicamente placida, anche se con un niente si può infuriare. Assolutamente inutile, se non nel riportare a più miti consigli René e nel coinvolgere la troupe in esperimenti culinari o alcolici, comunque sulla scia delle uscite di René. Arianna (Caterina Guzzanti), l’aiuto-regista, si trova così sobbarcata di lavoro, che in parte delega ad Alessandro, in modo dittatoriale, in parte inficia la sua sfera privata.
I due si scopriranno innamorati nel corso delle stagioni, ma le loro posizioni interstiziali e al tempo stesso cruciali per l’andamento della baracca impediscono un vero e proprio avvicinamento. In questa scena esilarante, li vediamo entrambi all’opera.
Eccoci arrivati alle alte sfere di Boris: da una parte il regista, René, dall’altra Sergio, il direttore di produzione, e Lopez, il delegato di rete. Mentre Sergio è disposto a tutto pur di racimolare soldi, e Lopez è fondamentalmente viscido e compiacente per fare comunicare il più possibile la troupe con i dirigenti della rete, Renè è il personaggio che più di tutti amerebbe il suo lavoro e che si trova costretto ad abbassarsi di livello per accontentare la rete. Per questa ragione, è soggetto a innumerevoli scatti d’ira e ad una costante tensione e senso di frustrazione e vergogna. In questa fauna di personaggi borderline sempre sull’orlo del fallimento o dell’asocialità, l’umanità di Renè è forse quella che permette una maggiore empatia nello spettatore, specie nella sua fatica di destreggiarsi tra le pretese al limite della sanità mentale degli attori e il pressapochismo dei colleghi.
Boris regala momenti di irrefrenabile ilarità, complice anche l’impiego di ottimi comici nostrani come Corrado Guzzanti.
L’episodio più divertente in assoluto è quello sulla puntata di Occhi del cuore ambientata in Africa: il set viene trasformato in un improbabile villaggio con tutti i crismi dei peggiori stereotipi razzisti piuttosto datati, conditi con perle di assoluta follia. Non starei scrivendo questa rubrica se non credessi nella memorabilità di questa serie. Perciò, se non l’avete ancora vista, guardatela, anche alla cazzo di cane (per citare Renè), ma guardatela.